andar per cavatappi
COLLEZIONE DI CAVATAPPI DI MARIO LEONETTI

Era mio nonno
da: - I Fabbri di Spezzano -

Sovente m’accade di tuffarmi sul tempo della mia infanzia e rievocare uomini e cose del mio paese. Eccomi oggi a, senza alcuna particola ragione, mentalmente passare in rassegna i fabbri, oggi quasi tutti scomparsi e che nella bella Spezzano degli anni venti, erano piuttosto numerosi. Per fortuna i molti lavori in ferro battuto esistenti nel paese, ci danno testimonianza della loro tangibile passata attività. Balconate, ringhiere, logge, loggette, cancelli, portali ecc., stanno lì a testimoniare, quante cose belle sapevano creare, con pazienza e con amore, questi benemeriti artigiani. L’osservatore non distratto, guardando e ammirando, sa ancora distinguere l’autore dell’opera, l’impronta caratteristica, come del reato si avverte in ogni opera dell’uomo. Personalmente ho avuto sempre simpatia per i fabbri, uomini semplici, tenaci e taciturni. Ma chi contribuì a farmeli vi è più amare ed apprezzare, è stato un uomo compagno di infanzia, anche lui apprendista fabbro: Franco, ahimè troppo immaturamente scomparso dalla scena e per giunta in tragiche circostanze. I fabbri di Spezzano, un po’ si rassomigliavano tutti. Fuligginosi, spesso con barbe lunghe da settimane, con tanti capelli neri ed irti. Le loro botteghe erano distribuite quasi tutte sulla strada principale del paese; l’antico “Corso Silano”, oggi via Roma.
Sulla “vianovasuprana” (oggi Corso Umberto) ecco mastro Michele. Alto, magro, brunissimo, capelli d’ebano, baffi e manubrio, insomma un bell’uomo del tipo del nobile indiano. Mastro Michele era il romantico degli artieri del ferro battuto.
Disdegnava e con ragione, sentirsi dare l’appellativo di semplice fabbro. Gradiva farsi chiamare (umeccanicu), il meccanico, inteso naturalmente in un senso un po’ più ampio del suo significato comune. Infatti egli esplicava nel suo lavoro una tecnica più moderna e pur serbando intatta l’individuale ispirazione artistica, mastro Michele dava un indirizzo eclettico alla sua produzione. Insomma un uomo gentile, quanto geniale sanno e possono essere gli artigiani di paese. In mille cose ci cimentava in tutte riusciva.
Dall’idraulica alla motoristica, dal ferro battuto alla saldatura autogena; dall’aggiustaggio delle molte cineserie che sapeva fare uscire dalle sue prodigiose mani.
Ma il suo “hobby” era quello di creare, rifiutava la copiatura, il ripetersi, pur sapendo che creare costituiva meno guadagno e più impiego di tempo. La prima bottega, ubicata all’inizio di Spezzano, nel rione “Piantarella” era quella di mastro Pasquale, il quale aveva, come del resto anche gli altri, il suo bravo soprannome, ma poiché a lui da vivo non era gradito, è meglio in questa circostanza non citarlo. Mastro Pasquale si era specializzato nella produzione di ferri di mulo, allora tanto richiesti, per via dei numerosi “traini” allora esistenti in paese, cioè quei tradizionali carri ad alte ruote, adatte alle strade delle nostre montagne e trainati appunto dai muli. Questi traini erano per lo più adibiti al trasporto del legname prodotto in Sila. I muli di Spezzano erano tutti belli, di colore scuro e di pelo lucidissimo, insomma di prima scelta, famosi per tutta la provincia. Orgoglio del loro proprietario che, aspettavano la festa di San Biagio, per dare dimostrazione di abilità e resistenza. In questa circostanza, si imbastiva una specie di corsa rusticana, quasi un “rodeo”. Tuttavia vi era il più bravo e questi veniva poi, e non senza contrasto, proclamato campione dell’anno. Mastro Pasquale, nella lavorazione dei ferri del mulo, era il preferito, in quanto i suoi erano più duraturi di quelli degli altri. Per la bisogna egli utilizzava, con somma perizia, resti di ferro consunti, le cosiddette “sberre”. Era occasionalmente coadiuvato da Camillo, da Celico, caratteristica figura di vecchio, valente solo nel saper chiedere un bicchiere di vino ed imitare alla perfezione il miagolio del gatto. Da ragazzo spesso m’indugiavo davanti alla bottega di mastro Pasquale, i miei occhi erano particolarmente attenti dalla rastrelliera stracarica di ferri bell’è pronti, attaccata ad un parete. Tutti quei ferri, appesi a grossi chiodi, ordinati in serie, suddivisi per forma, varietà e dimensione, inconsciamente, mi davano l’esatta immagine grandiosa dell’opera, della volontà, della potenza dell’uomo, domatore della materia grezza. Sulla stessa strada e quasi nei pressi dell’antica farmacia Scarnati, ci si imbatteva nella bottega di mastro Giovanni. Altra bella tempra d’uomo, gioviale, forte, rinomato perché di solito batteva il ferro con la mazza e con una mano sola , invece di adoperare il martello che pure non era affatto leggero. Abilissimo mastro Giovanni, nel forgiare grandi scure, le “gacce e mannisi”, come in dialetto si chiamavano, adoperate appunto dai nostri tagliaboschi. Quando egli batteva il ferro caldo sull’incudine, i suoi colpi erano tanto possenti che sprigionava faville di straordinaria lunghezza ed il rimbombo si avvertiva da un capo all’altro del paese. Tutt’ora quando mi capita di leggere la parola “favilla”, la mia mente invariabilmente, si riporta alle “faville” che faceva sprigionare dal ferro mastro Giovanni. Quasi al centro della piazza si Spezzano, proprio dove c’è ora il bar Centrale, trovava posto la bottega dei maestri fratelli: Francesco e Vincenzo; era una bottega un tantino diversa dalle altre, mi sembrava un po’ misteriosa, quasi un laboratorio d’alchimia. Fra le tante cose di cui questi abili artieri erano ineguagliabili era la lavorazione di falci da mietitore. Le grandi falci a mezzaluna. Strumenti che davvero richiedevano abilità e molta pazienza.
Abilità a stendere il nastro d’acciaio e semicerchio, aveva da essere leggero e resistente; pazienza nel dover poi tracciare i minutissimi dentini dalla parte del taglio. Rivedo come fosse ora; uno dei due fratelli a cavalcioni di un bislungo cavalletto di legno, con sovrapposto un pezzo di vecchio capitello romano su cui posava la falce, tenendola ferma a sua volta con due ganci collegate a due staffe. Quando uno di costoro era impegnato in questo lavoro, tanta grande era la concentrazione che, pur essendo di natura ossequiosa, non rispondevano neanche al saluto dei conoscenti. Altro curioso ricordo afferente a questa bottega di alcuni artistici sgabelli in ferro battuto, certamente da essi stessi costruiti. Erano composti da tre quadrelli di ferro sagomati ad S ed il sedile di un disco pure in ferro con un grande foro al centro. Sicuramente esisteranno ancora se gli eredi non se ne sono disfatti. Proseguendo verso il “rione al ponte”, si poteva scorgere la bottega di mastro Lisandro. Era questi un omone, una specie di Ercole buono, ma di lui ricordo poco, in quanto egli la maggior parte della sua attività la esplicava in Sila. Notoria era comunque la sua abilità nel costruire zappe e ferri di cavallo.
Purtroppo il rapido progresso, ha ucciso questa gamma di genialità artigiana: il ritmo della vita moderna, i famosi costi e ricavi, imposti dalla moderna economia di mercato, non consentono più la continuazione redditizia di questi mestieri, tuttavia è nostro dovere non dimenticare, chi, attraverso impegni e sacrificio, si è prodigato di oggetti, che restano ancora nelle nostre case a testimoniare la robusta personalità dei loro artefici.